domenica 19 maggio 2013

A Bologna una battaglia referendaria in difesa della Costituzione, dei diritti sociali e della democrazia

Il 26 Maggio votiamo A
«La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato». Articolo 33 della Costituzione Italiana

«Quale fra le seguenti proposte di utilizzo delle risorse finanziarie comunali che vengono erogate secondo il vigente sistema delle convenzioni con le scuole d’infanzia paritarie a gestione privata ritieni più idonea per assicurare il diritto all’istruzione delle bambine e dei bambini che domandano di accedere alla scuola dell’infanzia?

A) utilizzarle per le scuole comunali e statali

B) utilizzarle per le scuole paritarie private»

Quesito del referendum consultivo comunale bolognese del 26 maggio 2013


Ci sono battaglie che, partendo da un ambito specifico e da una dimensione locale, possono assumere, grazie alle loro implicazioni, un carattere generale e strategico, perché riconducono a sé le contraddizioni più profonde del quadro politico-sociale nazionale. Basti solo pensare al movimento No-Tav della Val Susa o, per altri versi, alla lotta condotta dalla Fiom a Pomigliano: conflitti in cui la rivendicazione dei diritti sociali e degli spazi di democrazia trova il proprio fondamento nei principi stessi su cui si regge la nostra Carta costituzionale.

Qualcosa di simile sta avvenendo nelle ultime settimane anche a Bologna, dove il prossimo 26 maggio si svolgerà un referendum consultivo cittadino promosso dal Comitato Articolo 33, con l’obiettivo di eliminare i finanziamenti comunali alle scuole private paritarie, per destinarli invece al finanziamento delle scuole pubbliche. L’iniziativa referendaria del Comitato è stata sostenuta fin dall’inizio dal fronte composito della società civile bolognese (movimenti ed associazioni da sempre attivi a sostegno della scuola pubblica), dalle forze politiche cittadine di sinistra (Pdci, Rifondazione, Sel, Verdi), dal M5S e da forze sindacali come Flc, Fiom e sindacalismo di base. Grazie anche al loro attivo sostegno, il Comitato referendario è riuscito a raccogliere lo scorso autunno, nell’arco di poche settimane, quasi 13mila firme di cittadini bolognesi, ben oltre il limite necessario stabilito dallo statuto comunale.

È a questo punto, con l’indizione del referendum, che la partita è entrata nel vivo, assumendo via via toni sempre più aspri, compattando a sostegno del finanziamento alle scuole private uno schieramento che fino a poco tempo fa sarebbe stato considerato eclettico, ma che oggi appare profeticamente coerente: Pd, Pdl, Udc, Lega Nord, Confindustria, Cisl, Curia, Comunione e Liberazione. In pratica tutti i poteri forti cittadini, a cui va aggiunta la malcelata insofferenza al referendum espressa dalla maggioranza della Camera del Lavoro Metropolitana, in contrasto con la posizione di aperto sostegno assunta dalla sinistra sindacale di classe nella Cgil, assieme alla Flc ed alla Fiom.

Ma come è stato possibile che proprio a Bologna si sia determinata una situazione simile? Per comprenderlo occorre fare un salto all’indietro di circa vent’anni.

Il “laboratorio Bologna” e la liquidazione del patrimonio storico-ideale del Pci

Come è noto, la storica sezione della Bolognina è stato il proscenio per lo scioglimento del Pci e l’avvio della svolta occhettiana. Ma a metà degli anni Novanta, il gruppo dirigente dell’allora Pds, che a Bologna amministrava con la giunta del sindaco Walter Vitali, ritenne che, sciolto il Pci, era ormai giunto il tempo di un ulteriore passo in avanti e che la città dovesse ancora una volta diventare il laboratorio politico per sperimentare in loco, prima di lanciarlo a livello nazionale, l’accordo tra ex-comunisti ed ex-democristiani. E la giunta Vitali ritenne che il terreno di sperimentazione dovesse essere, non casualmente, proprio la scuola, da sempre considerata strategica dalla forze cattoliche.

Nel settore scolastico tutte le giunte bolognesi a guida comunista avevano massicciamente investito, dal dopoguerra fino agli anni Settanta, costruendo una rete di istituti comunali di ogni ordine e grado, dagli asili-nido fino agli istituti tecnici superiori. Il fiore all’occhiello del sistema di istruzione pubblico comunale era rappresentato dalle scuole dell’infanzia, per l’eccellenza della loro elaborazione pedagogica (riconosciuta anche a livello internazionale) e per la capillarità dell’offerta, estesa su tutto il territorio cittadino.

Nel 1994 il sindaco Vitali decise consapevolmente la fine di questo modello virtuoso di intervento pubblico, in nome del “superamento di antichi steccati ideologici” sostenendo la convenzione che diede vita al cosiddetto modello integrato pubblico-privato, fondato ovviamente sui finanziamenti comunali alle scuole private, in specie quelle materne cattoliche. Negli anni immediatamente successivi alla stipula dell’intesa, diventarono evidenti gli effetti di questo radicale cambiamento di strategia: progressivo smantellamento dell’apparato scolastico comunale (ridotto unicamente agli asili-nido e alle scuole dell’infanzia) e continuo incremento della quota di finanziamento alle scuole private paritarie, in aggiunta alla quota già garantita sia dalla Regione Emilia-Romagna, sia (grazie all’azione del ministro Luigi Berlinguer) dallo Stato italiano.

È utile ricordare che la stessa giunta Vitali si rese protagonista in quegli anni di un’altra decisa rottura con il “modello” bolognese ereditato dalle passate amministrazioni a guida comunista, ovvero la privatizzazione delle Farmacie Comunali, un’azienda che produceva un cospicuo utile e la cui dismissione venne affidata all’allora assessore al bilancio Flavio Delbono, professore universitario di area cattolica, che ritroveremo sindaco della città per una brevissima quanto infelice stagione politica caratterizzata da scandali e cattiva gestione dei fondi pubblici. Dettaglio non trascurabile: la privatizzazione delle Farmacie Comunali fu portata a termine nonostante il parere contrario espresso dalla cittadinanza attraverso un referendum popolare consultivo che vide i comunisti bolognesi protagonisti di quella importante battaglia. La scusa addotta fu la scarsa affluenza alle urne (36% degli aventi diritto), che secondo la giunta rendeva l’esito “non politicamente significativo” .

Sta di fatto che il laboratorio bolognese aveva prodotto i risultati sperati. In quella che una volta era considerata la “roccaforte rossa” si privatizzava il welfare locale e si finanziavano con fondi pubblici comunali le scuole private cattoliche, un messaggio forte e chiaro di affidabilità che l’allora Pds lanciava ai suoi interlocutori a livello nazionale. Peccato che il messaggio non fosse evidentemente gradito ai cittadini bolognesi: le elezioni amministrative del 1999 furono infatti vinte dal candidato berlusconiano Giorgio Guazzaloca, a fronte di un astensionismo da record. Per riconquistare Palazzo d’Accursio i Ds furono costretti a schierare nelle successive elezioni comunali una figura nazionale quale Sergio Cofferati, che si rivelò tuttavia ben presto un corpo estraneo, mai integratosi nella vita pubblica cittadina, tanto da rinunciare volontariamente alla ricandidatura.

Seguì il breve intermezzo del sindaco Delbono che ha rapidamente portato al commissariamento della città. La buona politica e la buona amministrazione che avevano contribuito a creare, da Dozza in avanti, un modello sociale e politico ammirato in tutto il mondo (e particolarmente studiato dalla sinistra nordica, che ha mutuato gran parte del suo modello da quello emiliano e bolognese), in poco meno di tre lustri finiva ingloriosamente con un commissariamento e la scomparsa di amministratori di alto livello e competenza.

Il filo conduttore delle tormentate vicende politiche bolognesi degli ultimi vent’anni, qui sommariamente ricordate, emerge evidente: la progressiva liquidazione del patrimonio storico e ideale delle amministrazioni a guida comunista del secondo dopoguerra, perseguita in maniera esplicita e coerente, alla pari della giunta Guazzaloca di centrodestra, dall’apparato locale Pds-Ds-Pd. Il terreno ideale su cui operare lo “strappo” è stato identificato, in ossequio alla vulgata liberista (tra l’altro egemone a livello accademico anche nell’Ateneo bolognese) e all’ormai consolidato asse con i poteri forti cittadini, nel finanziamento pubblico alle scuole private cattoliche e nella privatizzazione di pezzi sempre più ampi e significativi di welfare comunale.

La battaglia referendaria del Comitato Articolo 33

L’attuale sindaco di Bologna, Virginio Merola, è stato eletto al termine della lunga fase di commissariamento, a seguito di consultazioni amministrative che hanno segnato un’altra triste rottura col passato: l’esclusione, per la prima volta dal dopoguerra, di rappresentanti comunisti dal consiglio comunale. Merola, diretta espressione dell’apparato Pd, renziano dell’ultima ora, è stato investito al ruolo di primo cittadino per dare seguito alle politiche di “larghe intese” col mondo cattolico e coi poteri forti cittadini, già perseguita dai suoi predecessori.

Prosegue quindi la strategia di progressiva riduzione nel finanziamento della scuola pubblica comunale e nel rafforzamento del cosiddetto sistema integrato di istruzione. Sotto la giunta Merola i finanziamenti comunali alle scuole private paritarie, di fatto quasi tutte scuole materne cattoliche, raggiungono la quota di 1milione e 200mila euro all’anno. Nonostante ciò, e nonostante gli ulteriori contributi garantiti dalla Regione e dallo Stato (per un totale di quasi 2milioni e 500mila euro), gli istituti privati paritari bolognesi rimangono tutti a pagamento, con rette da un minimo di 200 ad un massimo di 1000 euro al mese. Nel frattempo, come è noto, l’attacco alla scuola pubblica statale raggiunge il culmine, con i tagli lineari e le controriforme aziendalistiche operate, in piena continuità di intenti, dal tandem Gelmini-Profumo.

In questo drammatico contesto, il sistema integrato pubblico-privato bolognese viene apertamente presentato dall’amministrazione comunale bolognese come modello di riferimento a livello nazionale, e non è certo un caso che uno dei due sottosegretari all’Istruzione nominati dal governo Monti sia stata Elena Ugolini, per lunghi anni preside di un istituto privato bolognese gestito da Comunione e Liberazione.

Ma il meccanismo, apparentemente ben oliato, improvvisamente si inceppa. L’assessorato alla Scuola del comune di Bologna, per negligenza se non per scelta deliberata, sottovaluta il trend demografico positivo degli ultimi anni e così, all’inizio dell’a.s. 2012/2013, ben 423 bambini rimangono esclusi dalle liste della scuola dell’infanzia pubblica, nonostante risultino 96 posti ancora vacanti nelle scuole materne cattoliche. A dimostrazione del fatto che non tutte le famiglie bolognesi possono permettersi le rette richieste dalle scuole private paritarie, pur così generosamente sovvenzionate, né vogliono sottoporre i loro figli a un’educazione di stampo confessionale.

Su questa situazione di evidente impasse del cosiddetto sistema integrato di istruzione che si innesta la sfida referendaria lanciata dal Comitato Articolo 33 di Bologna, nato dall’iniziativa di intellettuali, docenti e genitori da sempre attivi in difesa della scuola pubblica e dei valori costituzionali che la contraddistinguono: inclusività, laicità e democrazia. Valori che non sembra siano in cima alle preoccupazioni delle scuole paritarie cattoliche: sarà un caso, ma attualmente su 1.730 allievi gli stranieri sono solo 80, cioè il 4,6% contro il 23,3% nella scuola dell’infanzia pubblica comunale e statale; i bambini disabili sono lo 0,3% contro il 2,1% nella scuola pubblica.

Come detto, l’iniziativa del Comitato referendario ha fin dall’inizio trovato sostegno nella sinistra politica e sindacale bolognese e in larga parte dell’opinione pubblica cittadina. Il risultato è stato, in poche settimane di mobilitazione, la raccolta di quasi 13mila firme. È a questo punto che la battaglia referendaria bolognese è entrata nel vivo e ha assunto anche i connotati di una battaglia per la difesa degli spazi di democrazia. Il sindaco e la giunta, infatti, dopo aver sottovalutato le capacità di mobilitazione civile del Comitato Articolo 33, trovandosi costretti a indire la consultazione referendaria e temendo evidentemente una possibile sconfitta, hanno cominciato a mettere in pratica tutte le possibili iniziative per contrastare l’azione del Comitato, anche attraverso palesi violazioni della prassi istituzionale.

Innanzitutto è stata respinta la richiesta del Comitato promotore di abbinare la consultazione referendaria con le elezioni politiche generali, scelta che avrebbe garantito tra l’altro un notevole risparmio per le casse comunali. La data scelta dalla giunta è stata quella di domenica 26 maggio, per ridurre al minimo l’affluenza, in modo da replicare l’escamotage già messo in pratica ai tempi del referendum consultivo sulla privatizzazione delle Farmacie Comunali. In questa stessa direzione va letta anche la decisione di istituire un numero di seggi nettamente inferiori al fabbisogno, nonostante le ripetute sollecitazioni del Comitato a garantire le migliori condizioni per la partecipazione popolare.

Ancora più eclatante è stata la consapevole decisione del sindaco Merola di abbandonare il ruolo di arbitro super partes, che gli affiderebbe in questo caso lo statuto comunale, per scendere direttamente in campo nella partita referendaria, appoggiando pubblicamente i fautori del mantenimento del sistema integrato e arrivando a mettere a loro disposizione la quota degli spazi pubblici normalmente riservata alla comunicazione istituzionale. In questo modo i sostenitori delle sovvenzioni alla scuola privata (opzione “B” al referendum) dispongono dei 2/3 degli spazi informativi, contro solo 1/3 riservato ai sostenitori dell’abolizione del finanziamento pubblico (opzione “A” al referendum). In un accesso di sincerità, il sindaco bolognese è arrivato ad affermare che non terrà comunque conto dell’eventuale esito referendario, se a lui sfavorevole, essendo la sua natura semplicemente consultiva.

Conscio che le implicazioni della contesa referendaria stavano rapidamente travalicando l’ambito locale, assumendo i caratteri di una significativa partita in difesa dei principi costituzionali, il Comitato Articolo 33 ha deciso quindi di ampliare il perimetro della propria azione, promuovendo un appello nazionale, intitolato “Bologna riguarda l’Italia”, che ha rapidamente raccolto l’adesione di importanti personalità del mondo della cultura, della politica e del sindacato: da Stefano Rodotà, che ha accettato di assumere il ruolo di presidente onorario del Comitato, a Margherita Hack, Andrea Camilleri, Wu Ming, Maurizio Landini, Salvatore Settis, Luciano Gallino e molti altri (per vedere tutte le adesioni consulta il sito del Comitato: http://referendum.articolo33.org/ ).

Le parole dell’appello chiariscono il valore generale assunto dalla contesa referendaria bolognese:

“La portata di questo referendum va ben oltre i confini comunali. E’ l’occasione per dare un segnale forte contro i continui tagli alla scuola pubblica e l’aumento dei fondi alle scuole paritarie private. In Italia c’è urgente bisogno di rifinanziare e riqualificare la scuola pubblica, quella che non fa distinzioni di censo, di religione, di provenienza. Quella dove le giovani cittadine e i giovani cittadini italiani ed europei imparano la convivenza nella diversità”.

Alla mobilitazione dei firmatari dell’appello nazionale, simpaticamente definiti da un assessore della giunta bolognese “intellettuali marziani di sinistra”, i sostenitori dell’opzione referendaria “B” hanno replicato con un manifesto in 10 punti a favore del sistema integrato pubblico-privato. Non casualmente, la sua presentazione è stata affidata all’ex-sindaco (in seguito senatore Pd) Walter Vitali e al professor Stefano Zamagni, economista bocconiano, figura di riferimento del mondo accademico cattolico bolognese, nonché maestro dell’altro ex-sindaco Flavio Delbono. Simbolicamente ricostruito l’accordo politico che diede vita negli anni Novanta al sistema integrato bolognese di istruzione, la lettura del manifesto ne rivela con coerenza gli elementi fondanti. Agli attacchi strumentali sul presunto carattere ideologico e laicista della proposta referendaria, alle falsità propalate sui suoi contenuti di merito, si affianca ora la consapevole rivendicazione di un modello di istruzione che si situa al di fuori del perimetro delineato dalla Costituzione repubblicana.

Nella visione del professor Zamagni e del senatore Vitali, la scuola perde ogni residuo connotato di “organo costituzionale”, come rivendicava Piero Calamandrei, e l’istruzione, lungi dall’essere considerata un diritto universale, viene definita, coerentemente con le concezioni neoliberiste, un “investimento per il futuro” soggetto alla libera scelta tra offerte concorrenti (purché debitamente finanziate con fondi pubblici). Non si poteva essere più chiari di così. In soccorso delle posizioni di Zamagni, a ulteriore conferma del rilievo nazionale assunto dal referendum bolognese, è giunta l’esplicita presa di posizione del presidente della Cei, il cardinale Bagnasco. Ancora più recentemente, il sindaco bolognese Merola ha deciso di alzare ulteriormente il tiro, affermando di voler “fare del referendum un caso nazionale in quanto occasione per chiarire da che parte sta il Pd” e definendo la consultazione popolare, in una lettera propagandistica inviata a tutte le famiglie bolognesi, un “imbroglio ideologico”.

Un’ occasione per il rilancio della presenza comunista e per la ridefinizione dei rapporti a sinistra.

Il laboratorio politico bolognese ha ancora una volta anticipato i tempi: gli schieramenti referendari locali ricalcano quelli stabilitisi a livello politico nazionale sulle “larghe intese” del governo Letta. E anche la posta in gioco è la stessa, insieme altamente simbolica e profondamente concreta. Si confrontano da un lato un progetto neomoderato, fondato sulla riduzione degli ambiti di democrazia e sulla ridefinizione in chiave liberista dei rapporti economici e sociali e dall’altro una visione ad esso radicalmente alternativa, che persevera nel mantenere ben saldi i riferimenti ai valori fondanti della nostra Carta costituzionale.

Il confronto è apparentemente asimmetrico: il fronte favorevole al finanziamento pubblico delle scuole private controlla la macchina comunale, dispone dell’appoggio di potenti apparati di partito e del sostegno di tutti i poteri forti cittadini. Opposto a uno schieramento così vasto e coeso, in grado di condizionare anche i principali canali di comunicazione locali, e che sta oltretutto giocando una partita di cui ha stabilito le regole e con l’arbitro schierato in campo, il Comitato Articolo 33 rilancia alla cittadinanza bolognese, nelle tante iniziative pubbliche realizzate grazie all’impegno diretto e generoso dei suoi volontari, l’appello in difesa dei principi costituzionali e dell’identità repubblicana. Di fronte alle falsità propagandistiche sulle ricadute negative per le famiglie bolognesi in caso di vittoria al referendum, i sostenitori dell’opzione pubblica contrappongono una semplice ma inconfutabile verità: l’abolizione dei finanziamenti alle scuole private garantirebbe di per sé l’apertura di un numero di sezioni di scuole dell’infanzia comunali in grado di assorbire completamente le liste d’attesa oggi esistenti.

La posta in gioco è davvero alta. La vittoria al referendum dell’opzione “B”, oltre a confermare il modello integrato di istruzione, aprirebbe la strada per i progetti futuri dell’attuale giunta comunale, che intende portare a termine il percorso di privatizzazioni aperto vent’anni fa dal sindaco Vitali con la vendita delle Farmacie Comunali, provvedendo all’esternalizzazione dell’intero welfare locale, da affidare ad una Asp unica (Azienda di servizi alla persona, partecipata dal comune), in attesa della prevedibile entrata in scena del sistema delle cooperative sociali, legato a interessi politico-economici trasversali. In questo schema rientrerebbe anche il destino delle scuole dell’infanzia comunali, preventivamente declassate al rango di “servizio a domanda individuale”, con la conseguente perdita delle garanzie contrattuali. Su questa prospettiva si è già aperta a Bologna una fase di profonda conflittualità sindacale tra la giunta e il personale educativo comunale.

In questa complessa e delicata partita, i Comunisti Italiani di Bologna, pur esclusi dal consiglio comunale e dalle istituzioni cittadine, hanno da subito giocato un ruolo di primo piano, aderendo formalmente al Comitato Articolo 33 e sostenendolo con determinazione, sia nella fase della raccolta firme che nella gestione della campagna referendaria. La segreteria della Federazione bolognese del Pdci ha immediatamente colto il valore strategico della sfida referendaria, ponendola al centro del progetto di rilancio della presenza del Partito sul territorio, tanto sul piano delle lotte sociali, quanto su quello del confronto politico. Straordinariamente rilevante è stato il contributo di militanza fornito dalla sezione cittadina e dalla Fgci, che hanno costantemente supportato l’azione del Comitato referendario, ottenendo espliciti riconoscimenti in termini di visibilità e di credibilità politica. Costante è stata la partecipazione del Partito al dibattito pubblico cittadino, grazie anche alla ricostruzione ex novo degli strumenti e dei canali informativi compiuta negli ultimi mesi.

Ma al di là delle occasioni contingenti che la sfida bolognese ha offerto per la ricostruzione del profilo politico dei comunisti in ambito locale, essa offre ulteriori spunti di riflessione di portata più generale. Innanzitutto, e inevitabilmente, dato l’ambito in cui si colloca, essa mostra con la più evidente chiarezza il compimento della parabola politica iniziata vent’anni fa proprio alla Bolognina, con l’annuncio della svolta occhettiana. Indubbiamente, anche da parte comunista, si sono manifestati limiti e ritardi d’analisi che hanno impedito di cogliere per tempo la profondità della trasformazione del profilo politico del Partito Democratico, nonché la forza dei legami interni e internazionali che ne condizionano l’azione di governo, a livello locale come a livello nazionale. D’altro canto, la definitiva presa d’atto di una volontaria rottura con il lascito storico e ideale dell’esperienza amministrativa di governo dei comunisti, in una città-simbolo come Bologna, deve indurci a rivendicarne apertamente l’eredità, difendendone senza incertezze il patrimonio di conquiste sul terreno dei diritti sociali e di cittadinanza, oggi apertamente minacciati dalla deriva neoliberista.

Soprattutto, va colta anche nella vicenda bolognese la conferma che nell’attuale fase politica nazionale, complessa e per certi versi drammatica, il terreno privilegiato per riunificare le lotte e le resistenze che pur si manifestano con forza nel Paese, deve essere prioritariamente quello della rivendicazione dei valori e dei principi fondativi affermati nella nostra Carta costituzionale. Attraverso la strenua difesa della Costituzione “colpita al cuore” i Comunisti Italiani sono chiamati a costruire, aprendo l’interlocuzione più vasta con le altre forze di sinistra, un fronte comune di opposizione alle politiche neoliberiste, che si batta contro la distruzione dei diritti sociali e la riduzione degli spazi di democrazia. La difesa dell’articolo 33, come di tutti gli altri che compongono il dettato costituzionale, è dunque oggi parte integrante del fronte di lotta principale, che permette di ricondurre le battaglie in difesa dei cosiddetti beni comuni nella dimensione unitaria più ampia della tutela del bene pubblico per eccellenza: la Costituzione Italiana nata, come amava ricordare Piero Calamandrei, il più deciso assertore del ruolo istituzionale della scuola statale nel nostro Paese, nelle montagne dove i partigiani caddero combattendo il nazifascismo.

(da marx21.it)


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